La prima legge di Newton (o un matematico tra gli sceneggiatori)

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Questo cortometraggio sembra durare il doppio, il triplo, o anche di più. Sembra avere qualche legame col tempo degli anziani che, come dice Gerardo, si moltiplica, “due giorni sono come dieci anni”, con lo spazio percorso da una boccia, breve ma sostanziale, come una metafora riuscita.
Tale tempo (lento, sereno ma fervido) e tale spazio (ristretto, limitato, ma contenente il necessario) sono le coordinate dell’opera di Piero Messina che con una profondissima delicatezza narra l’amore possibile tra una coppia di anziani, Gerardo e Luisa, che hanno rischiato di passare la vita insieme (se solo lui gliel’avesse chiesto…!) e invece si ritrovano ora a voler costruire qualcosa che non ha più il tempo per esistere ma ne ha per pulsare: una notte, poco più, e la bellezza che avrebbe potuto essere vien fuori come un baleno, come «una casa [che] apparì sparì d’un tratto \ come un occhio, che,largo,esterrefatto, \ s’aprì si chiuse, nella notte nera.».
Non c’entrerà nulla qui Pascoli, ma nei confronti arditi ci si ritrova sempre con un bandolo tra le mani, con un briciolo di verità, perciò proseguo. «E cielo e terra si mostrò qual era: \ la terra ansante, livida, in sussulto \ il cielo ingombro, tragico, disfatto» ancora da Il tuono, sembra annunciare le scene con quella bellissima chiesa nel cielo plumbeo, ripresa con tale geometria da far precipitare l’uomo (tante piccole macchie nere, funebri) nell’architettura, nell’ambiente, non si può non pensare ad Antonioni. Il corto si struttura come quella poesia che a scuola ci annoiava tanto: nel buio, dove tutto sembra finito e vuoto e senza speranza, dove i corpi sono in quiete o in moto rettilineo uniforme e appaiono intangibili, immodificabili, eternamente ovvi ecco la mano esterna, un amico o un fulmine, o qualsiasi altro fattore, che intervenga a modificarne il percorso, il comportamento, allora ecco la luce sulla casa, l’appuntamento tra i vecchi amici, l’insospettabile colpo perfetto giocando a bocce.
Tornando al tempo: ho detto che La prima legge di Newton sembra durare di più, ma non perché annoi o sia prolisso, tutt’altro. Raramente si trova un equilibrio tale tra il riempire le scene ed il lasciarle respirare. Trovarle così complete, così caratterizzate, descrittive ma al contempo abili a trasmettere emozioni, a suggerirle, da all’intera opera una solidità che solitamente si trova nei lungometraggi.
Qui si innesta la qualità attoriale, esemplare in questo caso. Anna Orso e Cosimo Cinieri mostrano la rara abilità di saper riempire un’inquadratura con uno sguardo o un gesto. Eloquente è la sequenza al cimitero, e uso il termine eloquente appositamente perché non una parola è prounciata eppure c’è, tra un grandangolo, una zoomata ed un paio di campo-controcampo, tutto il silenzioso dialogo che risolve la trama: il rispetto per il marito di lei, appena defunto, e la rinuncia alla, pur possibilmente preziosa, velleità di ricominciare, o quanto meno all’impeto che li aveva travolti, carichi di nostalgia.
Di nostalgia questo cortometraggio ne è carico: nelle bellissime musiche di accompagnamento, nei primi gesti di Gerardo che si prepara ad uscire, nei giocattoli di legno, nei personaggi stessi.

La regia è classica, ma adattissima ad un soggetto del genere, la fotografia (ad opera di Pasquale Remia) bellissima, sopratutto nella sequenza breve e intensa dei due corpi carichi di anni ma caricati, con dettagli, primissimi piani e tagli di luce morbidissima, di una bellezza davvero profonda. La scenografia di Laura Boni (che ha collaborato a La mia classe, ora a Venezia) accuratissima.
In fin dei conti un cortometraggio semplice, una storia raccontata con eleganza, che a tratti fa anche molto sorridere (il ritrovarsi a prendere lo stesso farmaco per la gastrite brindando ad esso, il mazzo di rose che resta impigliato nella porta che rimanda fino a Laurel e Hardy venditori di alberi natalizi), ma nel semplice non c’è il banale, anzi, bisogna ripetere e ripetere il solito motivo: le cose più facili sono le più difficili da realizzare (ma Messina ci è riuscito) e le difficili non sono sempre le più belle.
E poi anche io sono convinto che la matematica, la fisica, tengano nascoste tante di quelle metafore sui comportamenti umani che di tanto in tanto bisognerebbe considerare l’ipotesi di un matematico tra gli sceneggiatori. Chissà.

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