Salvo o il falso messia

Da anni in Italia si aspetta il messia. Qualche autore, attore, produttore non solo “da seguire” ma da cui dipendere, a cui appellarsi, a cui fare obbligato riferimento quando si parla di cinema italiano. In questa situazione è facile il sensazionalismo, sono facili gli stupori come le critiche qualunquiste, è facile prendere un soggetto qualunque e gridare al capolavoro, nella speranza si venga riconosciuti nel tempo come “i primi ad aver visto”.
Ecco Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, autori interessanti per carità, che già in Rita, cortometraggio del 2009, avevano assunto un punto di vista particolare per il loro cinema, quasi ossimorico per un’arte principalmente visiva: quello di una ragazza cieca, forse la stessa, vista l’omonimia. Se una ragazza è cieca il suo mondo ha dei limiti, questo sembra essere il loro assunto. Se ha dei limiti ha voglia di libertà, ma se questa libertà è cercata e voluta – entrambe le protagoniste fuggono da luoghi claustrofobici – è destinata a incontrare altri limiti, un’insormontabilità che sa degli eterni portoni di Kafka. Se le protagoniste sono soggette a limiti allora lo è anche l’inquadratura, fissa sui volti, interrotta da pochi campi più larghi e pochissimo montaggio. E come qualcuno ha detto, se quest’approccio può reggere in un cortometraggio, mostra tutti i suoi limiti su tempi lunghi.
Un’ora e quaranta minuti sono troppi per Salvo, un film scarno che da un’idea di base davvero pregna non tira fuori nulla, se non appunto sé stessa, l’intenzione del film. Il risultato sembra un abbozzo, di stile sopratutto, un non-finito, uno studio di regia da parte di due esordienti, sicuramente talentuosi, ma che dovrebbero avere più chiaro cosa voglia dire portare un film in sala.
Sinceramente non ho colto il motivo di tanto entusiasmo, del clamore attorno a questa “ventata di aria nuova” che dovrebbe venir fuori da quest’opera: Garrone fa lo stesso da quindici anni.
L’unica nota di interesse l’ho trovata nell’utilizzo del suono, che riesce ad essere ben più importante della parola, e solo un gradino sotto l’immagine. Onnipresente, fastidioso quasi, ma del tutto leggittimato dal punto di vista scelto. Una persona cieca vede con le orecchie e in non poche scene lo spettatore deve fare lo stesso, cercando di ricostruire lo spazio e l’azione col suono.La prima, lunga, scena è l’unica che davvero giustifichi la visione del film, la visione soggettiva è la sola possibile per creare tensione, suspence e qui avendo motivo d’essere tira fuori tutta la sua potenzialità espressiva. Il lento avanzare dei personaggi, lui in uno spazio sconosciuto e lei in una sensazione sconosciuta, da le vertigini. Le luci e le ombre, la profondità di campo e le prime visioni di Rita sono sapienti e sopratutto funzionali. La forma incontra la sostanza come si usa dire.

Messa a punto la prima scena immagino i due registi ad un bivio: come uscire da un inizio simile? Non lo si può ignorare e proseguire con una messa in scena più tradizionale, ma allo stesso tempo non si sarebbe neppure potuto continuare così per l’intero film. Per non tradirsi i restanti settanta minuti oscillano tra personaggi mal disegnati (i due ospiti), scene che nulla aggiungono all’insieme (una su tutte quella dell’auto nel traffico) e sequenze di grande bellezza pittorica ma nulla più, ossia settanta minuti senza coraggio, come avessero paura di accorgersi della presenza di qualcuno in sala e, facendo finta di niente, continuassero a ignorarlo, lasciandolo davanti a scene fredde, statiche, noiose, diciamolo pure. La tanta maestria dei primi minuti possibile che non sappia cambiare formula?
Il finale, se da una parte è bello, col suo tempo che passa immobile tra il cielo che scolora e il mare che ripete il suo verso, col muro alto oltre il quale quel rettangolo azzurro di orizzonte-libertà è irrangiungibile (mi ha ricordato la “muraglia” nel Meriggiare di Montale), dall’altra mostra quanto Salvo sia un’idea di cinema ma non un film. L’impossibile personaggio Rita, che nell’ora e quaranta subisce una metamorfosi irreale, che in un paio di giorni impara a muoversi e a guardare come se avesse sempre visto, nel finale è al fianco di Salvo fino alla sua morte, al fianco di un uomo sconosciuto che non può amare: una forzatura davvero eccessiva.

L’impressione finale è che il film sia fatto di caratteri e non di personaggi: c’è il pentito, la cieca, il boss, la signora omertosa e il suo marito curioso, ma nulla più di questo. Sembrano i personaggi solo tratteggiati di un fumetto o i personaggi di un western, cui molti hanno fatto riferimento, vedendo il texas in una nuvola di polvere e una collina brulla.
Insomma il messia non è ancora tra noi, e si dovrebbe applaudire ai film e non ai pezzi di bravura.
Speriamo in un’opera seconda più ragionata. Basterebbe una sceneggiatura un po’ più attenta.

2 pensieri su “Salvo o il falso messia

  1. Condivido il tuo pensiero dalla prima all’ultima parola!
    Inverosimile ed interminabile in sala…
    Complimenti per la recensione, regalaci presto altre parole!

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